Achille a Sciro, 1

Teti, madre di Achille, sapeva che se il figlio fosse partito con gli Achei per Troia lì sarebbe morto, colpito al tallone che non era invulnerabile. Quindi lo nascose nell’isola di Sciro, presso la reggia del re Licomede, che aveva molte figlie e fra queste l’eroe si mescolò, vestendosi da fanciulla e lasciandosi crescere i capelli. Ulisse lo stanò con uno stratagemma: offrì alle figlie del re pettini e spade. Le fanciulle scelsero i pettini, Achille la spada. E’ la storia del riconoscimento di una vocazione.

Nella reggia di Licomede vivo sospeso. In mezzo alle figlie del monarca, così numerose ed uguali, fra i loro pettini, balsami e veli, respiro una femminilità diffusa, che vive nei molti loro corpi, non si concentra in alcuno e non si lascia desiderare. Essa mi avvolge, mi penetra con dita più sottili d’un capello sì che, quando mi specchio, non so più chi io sia, femminile la chioma e l’abito, virile il volto, i desideri nel cuore -intanto crescono i sussurri che non debbo udire, su navi in partenza, su regni turbati.

Neppure col centauro Chirone, mio maestro, sapevo chi fossi: da essere umano malinconie e timori, da creatura divina i presagi, i sogni, gli impulsi di dono e violenza, la certezza del mio valore. Egli mi teneva con sè, sulla soglia della caverna. Fuori i prati verdissimi; dentro, l’oscurità, ricca, non paurosa; noi due sul limitare. Mi chiamava capretto, mi offriva del latte, e, quando il sole era alto nel cielo, raccontava storie, che mi preparavano a questa duplicità, a queste fanciulle che mi circondano, ai capelli lunghi che mi rendono simile a loro.

Giunsi a lui ancora bambino, e disperato. Avevo respirato acqua, giocato con i delfini, il mondo intero era stato docile ai miei voleri; ma la mano di mia madre che m’immergeva nelle acque dello Stige per rendermi immortale era stata fermata da una volontà ignota e incomprensibile. Allora l’acqua amica all’improvviso mi aveva bruciato le narici, occluso la gola; poi, fuori, a me grondante fu chiuso e muto il mare, la terra apparve un campo di lotta. Una parte del corpo e dello spirito erano ancora incorruttibili, liberi ed eterei; altra parte di essi tremava terrosa e timorosa, vedeva il tempo scandito dal sole e la fine di ogni cosa e di sè; voleva esser come l’altra, non poteva. Chirone mi ha salvato, anche se mai potè spiegarmi chi avesse fermato la mano di mia madre.

Un tempo attendevo sugli scogli; mia madre immensa muoveva masse d’acqua più grandi delle terre abitate, e poi giungeva e giocava a trasformarsi sotto i miei occhi, in seppia, tonno, conchiglia, onda, e la rincorrevo sulla riva, gridando di gioia e paura; adesso nella reggia, attendo non so chi e che cosa. Nessuno giunge, eppure dovrebbe.

Sulla soglia, tra luce e ombra, per anni che mai sembrarono lunghi, a tutto partecipavo, a nulla appartenevo. Poichè in principio mi dolevo dell’essere mio diviso, mi forzavo a considerare il centauro e l’unione che lo componeva, nè più osavo lamentarmi. Infine la duplicità, l’unione di forme diverse, divenne consuetudine e poi norma e bellezza. Lo dissi a Chirone, che ne rise, e dal suo riso percossi i fiori, il cielo, i prati si scuotevano ed esultavano e un tuono s’udiva nel bronzo. Oh caprettino, mio caprettino, ti farò cadere nel latte; ti farò intendere quanto il Fato sia stanco di quest’unione e divisione piuttosto debba praticare, con una storia che accadde molto lontano da qui, narrata da un ateniese che adesso vive fuggiasco nelle selve -Atene, l’unica città che non andrà in guerra, la sola, la prediletta, che non sciupa le sue forze, che deve oltrepassare quest’età, una freccia scagliata nel futuro. Che sappiamo noi del Minotauro, che sappiamo di ogni storia?

Mi narrò che il Minotauro era buono, che voleva parole e storie di dei ed eroi, suoi parenti; che nel Labirinto voleva compagnia alla sua sventurata sorte di rifiutato. Dapprima avevo colto con gioia la sacralità della mescolanza, finalmente enunciata; poi la sua impossibilità, e molti brividi mi avevano scosso, come se avessi ricevuto un avviso. Anch’io, figlio di una dea e di un mortale, simile al Minotauro, destinato quindi a perire. Chirone mi donava pace, allargando questa fine al mondo intero, rendendola transito, spalancando alle nostre spalle epoche più felici sigillate da volontà invincibili, da torti imperdonabili.

Perchè, caprettino, verso la cristallizzazione si va e deve andarsi, verso la rigidità e la distinzione, affinchè possa giungere la misteriosa congiunzione che ci riscatterà. Io ero al termine, ma non ero solo al termine dell’antica età, e non solo Chirone era con me: c’era il bosco intero, mutato orrendamente.