Cibo di guerra, 5 (sconsigliato a vegani e vegetariani)

Quando Roma era città aperta, nell’inverno del ’43, ai miei nonni fu regalato un pollo, vivo. Mia madre era una ragazzina e non mangiava carne da tre mesi. La povera bestia andava dunque uccisa, su questo non c’erano dubbi. Il problema era farlo. Si provò a tirare il collo alla gallina (dai, quante volte l’abbiamo visto fare in campagna? E’ un attimo!) ma nessuno riuscì; l’animale starnazzava e correva per tutta la casa, imbrattando ogni cosa la suo passaggio. Fu convocato un consiglio di famiglia, arrivarono i cugini del nonno, provarono anch’essi a tirare il famoso collo e nessuno riuscì. Uno di loro ebbe infine un’idea. Largo tutti, faccio io, allontanate la bambina. Mise la testa della gallina dentro il cassetto della cucina, lo chiuse e girò il corpo. Il giorno dopo mia madre potè mangiare carne. Raccontava che le era sembrata buonissima e che non riusciva a saziarsene. Ma com’era andata lo seppe molti anni dopo.

Coronavirus 9: Ottantenni (vietati commenti politici perchè non è un post politico)

Se è vera la notizia che un presentatore olandese ha deplorato le terapie fornite contro il Coronavirus ad ottantenni obesi e fumatori che fra due anni potrebbero essere morti (http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/coronavirus-presentatore-tv-olandese-kelder-inutile-salvare-anziani-obesi-e-fumatori-moriranno-entro-2-anni-be237ed4-1830-4afb-b651-67a30f5a1759.html), ci sono molte, moltissime considerazioni da fare. Di seguito, alcune di esse:

  1. Fra due anni potrebbero essere morti anche sessantenni, cinquantenni, quarantenni. Meglio non curare più nessuno?
  2. Max Weber aveva connesso la genesi del capitalismo alla religione protestante , che riteneva la floridezza economica prova certa di un benigno giudizio divino di salvezza. Così, nell’Europa del Nord, la spinta ad accumulare capitali fu, e rimane ancor oggi,  molto più forte che nell’Europa meridionale, dove la Chiesa Cattolica ha come modello (non sempre seguito) San Francesco . Una differenza di mentalità di lunga durata, che genera quel che a Sud viene giudicato un incrudelimento del capitalismo.
  3. Quando si sposta un paletto morale, chiamiamolo così, è molto difficile stabilire un nuovo punto in cui fissarlo. Se oggi mi sembra inutile, ed economicamente dannoso, curare gli anziani, e procedo a non farlo, domani potrò decidere di non curare i trentenni, i biondi, le persone che non mi piacciono.  O si curano tutti o nessuno.
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  5. Questo lo aveva ben capito Picasso. In Guernica la statua in frammenti del guerriero antico con la daga spezzata in mano è la fine dell’antico modo di combattere, basato su una qualche forma di codice etico (non si colpiscono donne e bambini, se l’avversario scende da cavallo scendi anche tu per essere alla pari ecc…).E il guerriero soggiace alla lampadina elettrica, simbolo del progresso che ha portato solo morte. Non è il ricordo di un singolo bombardamento, sia pur grave, ma l’annuncio che da quel momento in poi tutto sarà possibile in virtù dell’abbattimento di un cardine morale, che non si uccidono i civili e i disarmati. Sette anni soli separano Guernica da Hiroshima.

Cibo di guerra, 4

Ovvero come la guerra modifica il valore delle cose.

In Umbria, quando i Tedeschi si ritiravano dalla linea gotica, occuparono anche i casolari più sperduti delle campagne. In uno di questi un contadino passò quei mesi dormendo seduto quasi dentro il camino, con la roncola nascosta nella giubba: davanti a lui, sul pavimento dormiva un soldato tedesco e prima di addormentarsi fissava la botola del soffitto che chiudeva l’accesso alla soffitta dei salumi. Se me chiede d’andà su lo ammazzo co’ la roncola, aveva detto il contadino alla moglie. Non accadde, ma l’avrebbe fatto di certo. Un salame, una fetta di prosciutto, quando da un anno non si avevano proteine che non fossero un po’ di latte valevano più di una vita.

E così, più a Sud, una ragazzina che scappava dai bombardamenti in città per raggiungere la zia a Roma città aperta, doveva portare con sé due valigie, una con i salumi e la farina, l’altra con l’argenteria e i ricordi di famiglia. Uscì di città, iniziava la salita, il peso era intollerabile. Lasciò la valigia delle cose preziose e arrivò a Roma, ugualmente festeggiata da tutti. Che importava ormai un po’ di metallo?

Ricordiamo, ricordate, raccontiamolo a figli e studenti cosa è stato.

 

 

Cibo di guerra, 3 (Bombardamento di San Lorenzo, Roma 19 Luglio 1943)

 

260px-Bombardamento_di_RomaRoma, 19 Luglio 1943. Mi madre che abitava sull’Esquilino vicino la stazione Termini, aveva 14 anni e molta fame.

Verso le 11 di mattina era andata a Piazza Vittorio a fare la spesa, con la sporta a rete come quelle che si usavano allora, e ogni tanto tornano di moda come borse. Tutti pensavano che Roma non sarebbe stata mai bombardata, per il Papa e per il Colosseo. Nessuna paura in giro, quella era un cosa che riguardava Napoli. Roma era al sicuro.

E poi sopra le bancarelle le fortezze volanti, a gruppi di tre, a ondate continue. Cercavano la caserma di Castro Pretorio e colpivano il Verano; cercavano la stazione Termini e colpivano San Lorenzo. (Mussolini era a colloquio con Hitler. Gli riferirono del bombardamento di Roma e lui prese a tergersi il sudore dalla fronte col fazzoletto. Sapeva già che finiva tutto. Roma era tutto).

Mia madre non mangiava da un anno. Tra il fumo,  i sibili delle bombe vicinissime, e le urla, vide luccicare su una bancarella delle pesche, rosse e gialle, mature, sugose. Tutto sparì intorno, restavano solo le pesche. E si slanciò a rubarle, tra le grida della gente che scappava

-Ragazzina, và al rifugio!

-Vai a casa, corre!-

Lei non le sentiva, sentiva solo il sugo delle pesche, e di tutta la frutta, di tutta la verdura che non aveva mangiato da un anno. Riempì la sporta e a casa ebbe tante scrollate e urla dai miei nonni disperati, che la davano per morta sotto le bombe.

Poi, dopo la sfuriata, un vociare lontano, come di mare in tempesta. Una corsa in strada e in fondo a via Togliatti la massa di gente, coi materassi sulla testa e i ragazzini in braccio, che prendeva d’assalto i treni (tanto la stazione non era stata colpita). Poi un silenzio improvviso che si propagava e qualche voce appena, reverente, stupita: è Il Papa; è Sua Santità; è uscito dar Vaticano. Il Papa nella foto che tutti conoscete, che benediceva gli sfollati di San Lorenzo e il silenzio arrivava lontanissimo, fino a Termini; e le sue braccia aperte ricreavano il cupolone sopra chi aveva perso tutto.

Cibo di guerra, 2

Il 4 Giugno del 1944, a Roma. La fame finiva, arrivavano gli americani. La strada dove abitava mamma, per qualche minuto fu una bilancia impossibile. In fondo, verso nord, sparivano le retrovie tedesche, stanche e impolverate; dal lato della via Appia arrivavano gli Americani in un suono lontano di marcetta allegra. Le finestre erano tutte serrate, il silenzio profondissimo. Nessuno in strada. Le persiane serrate, ma dietro ogni persiana decine di occhi febbricitanti per l’attesa.

Mamma era andata con una vicina a chiudere il portone e vi aveva trovato, accasciato dietro un’anta, un soldato tedesco, giovanissimo. Sfinito, ansimava appoggiato al fucile. Troppe bombe a mano negli stivaloni, sotto al sole di Giugno.

La vicina gli aveva portato un bicchiere d’acqua e mamma gli diceva, sostenendogli il capo per farlo bere

-Resta. Americani buoni. Tu prigioniero, cibo- già si sapeva che gli Alleati avevano un sacco di cose da mangiare.

il soldato scuoteva il capo

-Berlin. Casa. Mama-

E se ne era andato a testa china, a raggiungere gli altri tedeschi, verso Berlino in fiamme. Poi, di corsa a casa, a spiare dietro le imposte. Il nonno era ripiombato tetro sulla poltrona di cuoio e la nonna  gli faceva una specie di report

-Sono vestiti tutti uguali- gli ufficiali si distinguevano solo per le stellette.

-Hanno la pelle nera!-

-Sorridono! Che bei sorrisi!-

Il nonno quasi spariva nella poltrona, annichilito. Troppo nuovo, troppo nuovo tutto in una volta.

Le finestre si spalancarono, tirate dagli stessi soldati americani ed entrò, in un tripudio di dentoni candidi, facce nere, e stellette, una pioggia di barrette di cioccolato, confezioni di pane bianco, caramelle mille gusti.

-Non toccare! Non chinarti, non umiliarti! Ci comprano così!-  gridò il nonno balzato in piedi alla figlia.

E poi mamma raccontava di aver intercettato lo sguardo del padre sulle calze bianche che le scivolavano giù fino alle caviglie. Gambette magre di guerra, e quel desiderio di andare avanti che le brillava negli occhi, che era tutta lei. E lui era crollato di nuovo in poltrona, sconfitto davanti a quella fame. Mia mamma mangiava, finalmente.

Il cibo ritornava e nel cielo si allargava la bandiera a stelle e strisce, al ritmo del boogie.

Polpettone della zia Lilli

Leggero, vivace, solo apparentemente modesto come la zia che lo faceva.

La cottura a bagnomaria mantiene tutto il gusto e la cottura senza grassi lo rende digeribilissimo e pieno di sostanza.

Tutte le ricette a base di tritato che posterò qui appartengono a zie che le hanno inventate, apprese o rivangate durante la guerra appunto, quando un po’ di tritato era un cibo da re.

La foto non rende. Immaginatelo, se vi piace, con maionese (fatta a mano mi raccomando) o con senape e  qualche cappero qua e là.

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Ingredienti:

– 4 etti di tritato di vitello magrissimo

– 4 etti di tritato di vitellina

-3 uova

– 1,5 etti di mortadella tritata

-1 etto di parmigiano

-molta noce moscata

– sale e pepe secondo il gusto

-una confezione di garza di lino (quella in due rotoli) di puro cotone, proprio quella delle ferite 🙂

Mescolare tutti gli ingredienti in modo da avere un composto omogeneo e ben sodo (da una massa di questo peso io ho ottentuo due rotoli di carne). Avvolgere ciascun rotolo di carne con la garza, ben stretto, rigirando più volta la benda.

Porre i due rotoli in una pentola a bordo alto dove stiano ben vicini fra loro, quindi porre la pentola in una più grande di acqua bollente. Appena il bollore riprende, abbassare la fiamma, in modo che l’acqua mantenga una lieve ebollizione, incoperchiare e fare cuocere, rigirando di tanto in tanto, per 2ORE (ebbene sì, 2 ore).

Fare raffreddare quindi “sbendare” i rotoli e affettarli.

 

Cibo di guerra

Prima di riportare qualche ricetta povera, di quelle per tutti i giorni, qualche nota sul contesto della Seconda Guerra Mondiale in cui sono nate.

Gruel Rations

Quando eravamo piccoli, a ogni più piccolo frammento di cibo lasciato nel piatto, nostra madre ci sgridava
-E’ che non avete fatto la guerra!-
Questo non aver vissuto la seconda guerra mondiale ci sembrava così una colpa. Chinavamo afflitti il capo sui nostri piatti, mentre iniziava la raffica di racconti sulla guerra, sempre gli stessi, e sempre diversi, perché ogni volta mamma aggiungeva un particolare nuovo, vero o falso che fosse.
-Ce l’hai raccontato! Lo sappiamo già!-
-E io ve lo racconto di nuovo!-

Mia madre, Maria Grazia detta Mimmi, durante la guerra viveva a Roma, con i miei nonni. Aveva 13 anni, le scarpe fatte col feltro dei cappelli di mio nonno, e sempre troppa fame. Una fame, proprio nel periodo della crescita, che pagò a caro prezzo nell’età adulta.
Quello che arrivava dalla campagna umbra, nascosto ai Tedeschi in qualche carro di paglia, bastava appena a non morire di fame –patate, qualche salame, farina di grano e granturco. Il nonno nell’inverno del ’43 faceva le sigarette con le foglie di noce essiccate e aromatizzate col brandy.
La fame a Roma città aperta fu terribile. Con le tessere annonarie si avevano ogni giorno solo 100 gr. di pane a testa. I miei nonni fingevano di essere inappetenti e davano il loro pane alla figlia. Niente zucchero, niente frutta o verdura.
Il 19 Luglio 1943, sotto il bombardamento americano, Mimmi che stava facendo la spesa in Piazza Vittorio, scansò la paura, la polvere, i boati e la gente le che gridava di correre al rifugio, si precipitò sulle bancarelle e riempì la sporta di pesche, susine, peperoni, pomodori.
Mia suocera raccontava che nelle città siciliane della costa, poco prima dell’arrivo degli Americani, si vedevano al mattino presto donne avvolte in scialli neri che si avvicinavano alle signore, aprivano la veste e mostravano pezzi di capretti e conigli squartati, provenienti dalle campagne all’interno, da comprare a caro prezzo.

La generazione di chi ha fatto la guerra ha insegnato ai figli a non buttare il cibo, a mangiare di tutto, ed è stata iperprotettiva, ipernutritiva. Ci ha ingozzati di fettine ai ferri, nasello al vapore e olio di fegato di merluzzo, con il risultato di farci agognare diete vegetariane. E ci ha insegnato a cucinare in modo povero, per fortuna.